Psicologia sportiva
Domande frequenti

Quanto tempo si dedica settimanalmente ad un atleta?
Come conquistare la fiducia degli atleti più scettici?
Qual è il ruolo dello psicologo sportivo? E quali sono i confini da non superare?
Che differenza c'è tra le competenze psicologiche dell'allenatore e quelle dello psicologo sportivo?
Perché una società professionistica dovrebbe avvalersi della consulenza di uno psicologo sportivo?
In che modo uno psicologo dello sport può presentarsi ad un ente o ad una società per essere assunto? Come egli può convincere l'ente dell'utilità del proprio lavoro e della validità delle proprie competenze?
Quanto costa avvalersi della consulenza di uno psicologo dello sport?
Cosa rispondere ad un ragazzo che confida di voler diventare un giocatore professionista, ad ogni costo?
Come preparare un'atleta alla fine della sua carriera?
Esistono dei rischi psicologici nella pratica dello sport in età evolutiva?

Se desideri, puoi fare la tua domanda al dr. Salvo Russo, specificando se gradisci la risposta via email o pubblicata su questa pagina.

Quanto tempo si dedica settimanalmente ad un atleta?
Naturalmente, il tempo dedicato ad un atleta differisce a seconda del tipo di sport e del momento della stagione in cui si è chiamati ad intervenire. Per quanto riguarda gli sport individuali, ad inizio stagione, in fase di preparazione all'agonismo, è consigliabile una frequentazione quasi quotidiana con l'atleta (1ora circa al dì), in modo da poter effettuare una valutazione psicologica iniziale e concordare con l'atleta stesso un programma di preparazione mentale. Quando, dopo qualche settimana, l'atleta ha preso padronanza delle tecniche di preparazione mentale e le esegue puntualmente, allora la frequentazione potrà diradarsi ad una, due volte la settimana con l'obiettivo di fare il punto della situazione e per "raffinare" la preparazione mentale in modo che "calzi" sempre più la misura dell'atleta. Se si viene chiamati in piena stagione agonistica, invece, bisognerà porre molta attenzione all'ANALISI DELLA DOMANDA, cioè al motivo per cui si è chiamati ad intervenire. In genere, ciò avviene per risolvere dei problemi che sono stati giudicati di origine "psicologica" (ma che non sempre poi lo sono) oppure per gestire particolari tensioni legate alla competizione. In questi casi, i primi giorni (5 o 6) di frequentazione sono molto importanti poiché, in così breve tempo, è necessario comunque prendere delle decisioni e porsi degli obiettivi. Meglio se gli obiettivi sono pochi, chiari e condivisi dall'atleta. In questo caso, il tempo dedicato dallo psicologo sportivo non dovrebbe essere inferiore ad un'ora al dì per i primi giorni, per diradarsi ad una, due volte la settimana quando si sono posti degli obiettivi condivisi. Per quanto riguarda gli sport di squadra, a prescindere dal momento della stagione, lo psicologo sportivo dovrebbe partecipare ai momenti comuni di squadra (in particolare agli allenamenti) per tutta la stagione per poi dedicarsi a programmi di preparazione mentale con singoli atleti o di gruppo, in separata sede. Il tempo complessivo dedicato per tale opera, in squadre professionistiche, non è inferiore a 4-5 ore giornaliere. A queste vanno aggiunti i briefing con tutto lo staff tecnico, che in alcune società sono giornalieri, in altre settimanali.

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Come conquistare la fiducia degli atleti più scettici?
Un modo per conquistare la fiducia degli atleti più scettici è accettare così com'è il loro scetticismo. I motivi per cui alcuni atleti sono scettici nei confronti della psicologia dello sport possono essere molteplici (familiari, sociali, culturali, esperienze passate negative, ecc..). Per tale motivo, non conviene tentare di capire forzatamente l'origine di tale scetticismo, né tantomeno provare a far cambiare idea ad un atleta così convinto. Continuare a comportarsi spontaneamente con un atleta che si è dimostrato freddo e scettico, dimostrandogli, comunque che la stima per lui non si è modificata, di per sé, già provoca "qualcosa" nell'atleta. Un atleta scettico e rifiutante con lo psicologo sportivo, probabilmente, lo sarà anche con altre figure della squadra (allenatore, dirigenti, compagni, ecc..) e questo provoca disagio da entrambe le parti. Il messaggio più forte, verbale e non verbale, che deve passare in questi casi è: "caro amico mio, io non ho astio con te perché non credi in me. Io credo nelle tue capacità comunque. Se vuoi, sappi che puoi "servirti" di me." E' importante, in questi casi, ricordarsi che già ascoltare un atleta che, dopo settimane, confida di essere stato scettico con lo psicologo sportivo, è preparazione mentale.

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Qual è il ruolo dello psicologo sportivo? E quali sono i confini da non superare?
Lo psicologo sportivo è fondamentalmente un tecnico. Quindi il suo ruolo va collocato nello staff tecnico. Per quanto riguarda il gli sport individuali un modello esemplificativo potrebbe essere quello del Centro Studi e Formazione in Psicologia dello sport di Milano in cui si evidenzia la CENTRALITA' dell'atleta.

 

 

Per quanto riguarda gli sport di squadra, utile potrebbe essere il modello presentato dall'allenatore di calcio, Mario Beretta, in occasione della sua Tesi al Supercorso di Coverciano, dal titolo "Organigramma tecnico e strutture di supporto in una società professionistica" (www.calciatori.com):




I confini che non devono essere superati sono quelli rappresentati dagli altri ruoli presenti nello staff tecnico. E' eticamente importante che lo psicologo sportivo, per esempio, non esprima giudizi tecnici o medici, poiché potrebbero verificarsi le condizioni per delle conflittualità all'interno dello staff. Potrebbe capitare che, al contrario, un altro appartenente allo staff dia giudizi di tipo psicologico. L'esperienza insegna che ad un comportamento corretto, quasi sempre, ne consegue un comportamento altrettanto corretto di risposta, ma insegna anche che, nella maggior parte delle volte, le conflittualità in ambito lavorativo, non derivano da aspetti tecnici, ma piuttosto da aspetti squisitamente personologici e di relazione. In un organigramma così strutturato, è fondamentale, comunque, la figura dell'allenatore e del suo stile di leadership.

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Che differenza c'è tra le competenze psicologiche dell'allenatore e quelle dello psicologo sportivo?
Le competenze psicologiche dell'allenatore sono di fondamentale importanza anche perché influenzano, in maniera significativa, insieme alle caratteristiche di personalità, la sua leadership. Le competenze psicologiche dell'allenatore impregnano ogni sua attività di tipo tecnico e sono: capacità comunicativa, stabilità emotiva e gestione dell'imprevisto, gestione del conflitto e negoziazione, organizzazione e gestione del gruppo, supporto motivazionale, capacità di formazione dei collaboratori e capacità di delega. Nei corsi per allenatori sono sempre più presenti insegnamenti atti ad incrementare le competenze di tipo psicologico. Le competenze psicologiche dello psicologo sportivo hanno, invece, una duplice funzione: da una parte promuovere, programmare ed attuare la preparazione mentale dei singoli atleti e del gruppo, dall'altra costituire un prezioso ausilio per l'allenatore che, attraverso l'osservazione di un esperto del campo psicologico, può trovare nuovi spunti per una leadership sempre più positiva ed efficace.

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Perché una società professionistica dovrebbe avvalersi della consulenza di uno psicologo sportivo?
Le società professionistiche dei nostri giorni assomigliano più a delle vere e proprie aziende che alle storiche squadre di oratorio, cui fino agli anni sessanta i club del nord Italia attingevano per rimpinguare i loro vivai. I budget, i target, i gadget, i diritti TV, l'ingresso in Piazza Affari, oggi, non sono poi così diversi a quelli di alcune multinazionali e non sempre gli obiettivi sono soltanto di tipo sportivo. Per tale motivo l'organigramma è composto da un numero sempre maggiore di persone, tutte occupate in uno specifico settore: presidente, direttore generale, amministratore delegato, responsabile area tecnica, direttore sportivo, team manager, direttore della comunicazione, direttore editoriale, responsabile marketing, network administrator, ecc. Tutto ciò deriva dall'esigenza di competenze che naturalmente è sempre maggiore così come sono gli interessi che "girano" attorno a queste società. Anche lo staff tecnico è ormai composto da più persone il cui leader è l'allenatore. In questo contesto, la presenza di un esperto dell'area psicologica non può trovare migliore collocazione. La sua consulenza dovrebbe, infatti, orientarsi su almeno tre direzioni: il rispetto dei ruoli, la preparazione mentale dei singoli e di gruppo e il riconoscimento e la gestioni dei conflitti che, in un ambiente come questo, sono all'ordine del giorno. Nonostante sia davvero difficile, attualmente, trovare nell'organigramma di una società professionistica uno psicologo sportivo la impressione forte è che l'esigenza (consapevole e non) sia sempre maggiore e che quindi è solo questione di tempo.

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In che modo uno psicologo dello sport può presentarsi ad un ente o ad una società per essere assunto? Come può egli convincere l'ente dell'utilità del proprio lavoro e della validità delle proprie competenze?

Gentile Collega, questa domanda  è molto  frequente, soprattutto ad inizio carriera dello psicologo dello sport. Io, innanzitutto, consiglio sempre di vivere vicino al mondo dello sport, già durante la formazione. Non importa il ruolo all’interno dell’ambiente sportivo. Va bene sia come atleta che come dirigente, sia come arbitro che come imprenditore sportivo. Ciò che conta è conoscere il linguaggio degli addetti ai lavori dello sport che si desidera seguire. Una volta ottenuta la fiducia delle persone dello sport, suggerisco di proporre un progetto semplice. Magari con un singolo strumento e con un singolo obiettivo. Consiglio di conoscere bene l’ambiente prima di presentare un progetto in modo da proporre qualcosa di davvero utile per quel committente. E’ sempre importante avere un riconoscimento (anche non economico) per il lavoro svolto. Talvolta, uno sponsor non è disposto a pagare uno stipendio ad uno psicologo, ma invece è disponibile a sostenere la formazione all’estero di una persona “vicina” alla Società. I risultati del progetto dovranno essere valutabili e visibili. In genere, dopo il primo lavoro, ne seguono degli altri non necessariamente nello stesso Ente o Società. Il passaparola è la miglior publicità per qualsiasi professionista. Soprattutto il permanere all’interno dell’ambiente sportivo per motivi professionali aiuta lo psicologo ad avere commissionati altri lavori. Anche a questo scopo, noi proponiamo il Software SPSmanager, il primo software gestionale per la psicologia sportiva. Al suo interno sono presenti le sezioni di tutte le più diffuse tecniche di preparazione mentale e questo strumento può inoltre contenere un gran numero di dati di migliaia di atleti. Con questo strumento istallato nel proprio computer portatile, lo psicologo può fare vedere con grafici e dati soggettivi ed oggettivi di osservazione sul campo in che cosa consiste praticamente una consulenza di uno psicologo sportivo in un Ente, Società, Istituto o Federazione Sportiva. Spero di esserti stato utile.

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Quanto costa avvalersi della consulenza di uno psicologo dello sport?
La tariffa per la preparazione mentale di un singolo atleta oscilla tra le 30 e le 60 euro l'ora. L'assistenza psicologia giornaliera per un'intera squadra varia tra le 200 e le 600 euro per giornata. Il tariffario, può, comunque, discostarsi da questi valori a seconda del contesto (dilettantismo/professionismo) e del periodo di intervento richiesto (un problema specifico/ un'intera stagione o più). Per quanto riguarda interventi di tipo formativo/informativo presso enti pubblici e/o privati è difficile stabilire un range poiché, spesso, l'onorario dipende dall'età, dalle competenze, dall'esperienza e dalla notorietà dell'oratore.

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Cosa rispondere ad un ragazzo che confida di voler diventare un giocatore professionista, ad ogni costo?
Un ragazzo che confida di voler diventare un giocatore professionista, il più delle volte, ha le idee chiare. Rendendosi conto, almeno in parte, delle difficoltà e del distacco esistente tra questo suo obiettivo ed un lavoro "normale", il fatto stesso di averlo confidato può derivare da esigenze di conforto e conferma. Questa confidenza, in genere, giunge all'orecchio dei genitori, di qualche amico e dell'allenatore (si tenga conto che spesso questi ragazzi talentuosi fanno già parte delle squadre giovanili di club professionistici). Cosa dire ad un ragazzo di 14-18 anni, considerata anche la fase sviluppo che sta attraversando? Certamente la risposta non è né semplice né unica. Come negare, infatti, che la carriera che spera di intraprendere è meravigliosa, una delle poche che fa esprimere mente e corpo contemporaneamente, che fa provare delle emozioni inimmaginabili, che può portare a buoni guadagni, ma al tempo stesso, come non considerare la brevità della carriera, i rischi fisici e quelli connessi ad un ambiente che spesso è tutt'altro che accogliente? Probabilmente una buona risposta sarà semplicemente "accompagnarlo" lungo questo cammino, tenendo presente come valore supremo il suo benessere. Invitarlo a puntare ad esso e ad allontanarsi da ciò che potrebbe insidiarlo (persone, situazioni, sostanze o altro). Forse così, crescendo, il ragazzo sperimenterà che lo sport è qualcosa di stupendo, ma non è tutto; esistono altri valori su cui fare affidamento, su cui investire affettivamente e "sprecare" energie, come la famiglia, l'amicizia vera, i grandi ideali del nostro tempo (la pace, l'uguaglianza, la fraternità universale, ecc.). Forse, se lo si accompagna, in maniera molto discreta, scoprirà che tutte queste cose le potrà comunque avere sia da giocatore professionista sia da "normale" lavoratore.

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Come preparare un'atleta alla fine della sua carriera?
La fine della carriera agonistica per un atleta può essere considerata, in senso psicologico, senza eccessi, un vero e proprio lutto. Basti pensare alla quantità di ore impiegate con gli allenamenti, alle trasferte, ai ritiri, ai periodi di preparazione, alle abitudini alimentari. Dopo 15-20 anni di questo stile di vita, a fine carriera, si forma inevitabilmente un "vuoto". E questo vuoto l'atleta comincia a percepirlo prima, come quando il ciclista, dopo un lungo sforzo, intravede il traguardo. Come in ogni "perdita" si può andare incontro ad un temporaneo abbassamento del tono dell'umore, ad una diminuzione della voglia di fare le cose, ad un orientamento della propria esistenza in senso depressivo. Per tale motivo, una buona parte (ma non la totalità) degli ex-atleti tende a restare attorno al mondo dello sport, anche solo per "respirarne" l'aria. Per preparare bene un atleta al termine della sua carriera, innanzitutto, bisogna informarlo sulla possibilità, fisiologica, di provare dentro di sé un senso di vuoto. Successivamente, si deve preparare l'atleta a riempire tale vuoto con qualcosa che lo occupi non solo concretamente, ma anche e soprattutto affettivamente. Infine, bisogna ricordare all'atleta che essere "atleta" comporta per lui vivere secondo un codice non scritto, ma presente: rispettare le regole, essere generoso sul campo, stimare l'avversario, dare sempre il meglio di sé, ecc. Questo codice potrà viverlo con orgoglio per tutti i restanti giorni della sua vita.

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Esistono dei rischi psicologici nella pratica dello sport in età evolutiva?
Mettendo su una bilancia i fattori positivi e negativi connessi alla pratica sportiva in età evolutiva (dai 6 ai 14 anni), certamente questa penderebbe decisamente dal lato dei fattori positivi; basti pensare agli effetti benefici sull'abilità cognitiva (intelligenza spaziale, corporeo-cenestesica ed interpersonale) ed agli effetti sulla personalità (formazione ed integrazione dell'Io, sviluppo dell'identità, conquista della stabilità, integrazione sociale). Dei rischi, però, possono esistere e sono sostanzialmente riconducibili a tre aspetti: la scelta dello sport, il modo con cui lo sport viene praticato e l'influenza degli adulti sulla attività sportiva del bambino. Nei limiti del possibile, dovrebbe essere il bambino a scegliere lo sport da praticare tra quelli disponibili nella zona. Il bambino non dovrebbe praticare uno sport che non gli piace, che non lo diverte e/o per il quale non si sente portato. Il modo con cui il bambino pratica lo sport dipende molto dall'istruttore-allenatore che dovrebbe avere delle competenze di psicopedagogia (magari avendo sostenuto dei corsi per istruttori). L'istruttore, pur mirando all'apprendimento del gesto tecnico correttamente eseguito e all'insegnamento di un determinato fondamentale di gioco, dovrebbe porre l'attenzione al divertimento e alla creatività del bambino. Un bambino con un istruttore che non possiede queste caratteristiche, può andare incontro a situazioni frustranti che, spesso, sono il preludio dell'abbandono. Infine, i genitori. Dopo la scelta meditata dell'istruttore, dovrebbero avere il coraggio di mettersi un po' più da parte, senza essere troppo apprensivi o eccessivamente permissivi. L'errore più grande che un genitore possa commettere (peraltro frequentissimo) è quello di rivedere nel figlio in campo, se stesso. Questa condizione dovrebbe essere evitata per non far sentire al figlio un carico di compiti troppo gravosi e per non farlo crescere con la convinzione che l'amore dei genitori "passi" necessariamente attraverso il suo successo nello sport.

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